Work in progress / Spazio In Situ / Roma / 2017
Curatela di Porter Ducrist
10 Febbraio 2017
Marco De Rosa sin dal titolo scelto per la sua personale, Work In Progress appunto, ci catapulta in una dimensione non finita, precaria, un olimpo del fai da te, dove l’autogestione delle risorse e l’arrangiarsi diventano mezzi di sopravvivenza nella fiera del consumismo più becero. La ricerca dell’artista si concretizza nella creazione di installazioni infrastrutturali che inglobano alcune parti architettoniche dell’ambiente. Arnesi da carpentiere, morse, livelle, nastri autobloccanti e metri sono collocati nello spazio simulando la presenza di lavori in corso. Un cantiere in fieri che mostra i segni della sua creazione, come fossero dei sigilli che suggellano l’esattezza dei propri rilievi.
L’hic et nunc della loro esistenza nello spazio-tempo vacilla quando, immobile davanti ad esso, si trova il riguardante: come funzionano questi marchingegni? Cosa significano?
Marco De Rosa, proprio interrogandosi sulla funzione dell’opera d’arte, riflette sull’esigenza di catalogare e regolamentare tutto lo scibile di cui siamo investiti, per rendere perfettibile qualsiasi fatto esistente. La tensione verso la perfezione conduce inevitabilmente ad uno stesso risultato, che corrisponde ad un momento di stasi e di arresto.
Proprio in questo istante, quando il non-senso delle strutture sembra coincidere con il caso, si comprende che le opere di De Rosa sono immortalate nell’atto di compiere una fragile operazione. Le installazioni sono strumenti di misurazione che, in un sistema regolamentato dalla ruota del profitto, sono destinati a rivelare l’inservibilità dei propri calcoli.
L’artista affronta così il tabù culturale del fallimento visto come l’unica condizione che riuscirebbe ad innescare riflessioni e cambi di rotta, lasciando emergere quelle potenzialità rimaste inesplorate. Il Fallimento diventa così un’opportunità di crescita e di sviluppo sociale e collettivo, un’occasione in cui il confronto e la condivisione diventano la semantica di un nuovo codice.
Ironico e dissacrante è il linguaggio utilizzato da Marco De Rosa, che disegnando prospettive senza direttrici, e fornendo coordinate verso l’abbandono, traduce la vacuità delle azioni compiute da questi ingegnosi sistemi di calcolo, in metafore sull’inservibilità degli strumenti artistici.
L’arte non serve, perché non è serva. Giocando sul filo dell’ironia e del doppio senso, Marco de Rosa si interroga sui mezzi che l’artista ha oggi a disposizione per plasmare ed imporsi sull’incertezza del contemporaneo.
Sara Fiorelli